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Immagine del redattoreMaria Francesca Astorino

Sappiamo riconoscere più il dolce o l’amaro? Viaggio alla scoperta della scienza del gusto.

“Il gusto è il genio del critico”, cit. Francesco De Sanctis.

Il gusto è definito come uno dei cinque sensi di cui l’uomo è dotato; è il senso che l’essere umano esercita attraverso gli organi del gusto. Tutto ciò che viene introdotto nella bocca, viene controllato, riconosciuto ed elaborato attraverso delle strutture altamente specializzate che scientificamente prendono il nome di recettori sensoriali, anche dette papille gustative. Queste si trovano sulla lingua, sul palato, nella faringe e nella laringe. Le sensazioni complesse del gusto derivano dalla azione integrata dei gusti primari elaborati per mezzo dei recettori sensoriali e delle percezioni che sono permesse dal sistema olfattivo. In senso figurato, il gusto viene spesso associato alle sensazioni di piacere, soddisfazione che le pratiche gustative portano con sé.


La miscela di segnali sensoriali derivanti dalle percezioni gustative, olfattive e tattili trasmesse per mezzo del cibo è definizione della "sensibilità orale". La comprensione del funzionamento del senso del gusto, è ancora in corso di studio, sebbene negli ultimi anni la scienza ha compiuto molti progressi mettendo in luce gli attori principali del processo percettivo.

Per diversi anni, la consuetudine ha voluto che i gusti identificati fossero quattro: dolce, salato, amaro e acido. Studi successivi hanno mandato in aria anni di certezze, proponendo la presenza di un quinto gusto: l'umami. Scientificamente l'umami è il gusto tipico dei cibi ricchi di proteine: è molto sapido (ossia saporito), ed è tipico di tutti quei piatti che ricordano il sapore del dado da brodo confezionato.


Non solo, negli scorsi anni un ulteriore studio ha evidenziato la possibilità da parte dei recettori gustativi di percepire il sesto gusto, quello del grasso. Dall’ Università di Deakin di Melbourne (Australia), un gruppo di scienziati hanno coinvolto numerose persone a prendere parte allo studio, diventando assaggiatori di svariati alimenti – dall’olio al latte – e sono riusciti a identificare il sapore di una vasta categoria di sostanze grasse. La base scientifica di questo esperimento la si trova nella dimostrazione che le persone capaci di distinguere il gusto del grasso mangiano un minore quantitativo di cibi ipercalorici rispetto a quel gruppo di soggetti la cui dieta è prevalentemente basata sul consumo di grassi.


Ma perché accade questo? Tra i recettori delle papille gustative c’è CD36, una proteina capace di metabolizzare i lipidi, influenzandone così la percezione. Quello che è stato osservato sul pool di tester, è che non tutti gli individui percepiscono allo stesso modo il gusto del grasso. La proteina CD36 sollecita l’assunzione di grassi in caso di livelli insufficienti di lipidi. Questo però in alcuni soggetti, produce una continua sollecitazione alla assunzione di grassi, cosicché del gusto “fat” non se ne abbia mai abbastanza, fino a determinare l’obesità. In particolare, gli scienziati hanno notato che, livelli più alti del recettore CD36 corrispondono ad una percezione della presenza di grassi negli alimenti otto volte maggiore rispetto alla media. Si potrebbe quindi concludere che sia la dieta stessa ad incoraggiare il meccanismo e che un regime alimentare ad alto tasso di lipidi ha lo svantaggio di inibire la produzione della proteina, stimolando invece la voglia di grassi e azionando il circolo vizioso della assunzione degli stessi.


Per quanto ne sappiamo, quindi, la percezione e la tendenza a prediligere alcuni cibi piuttosto che altri hanno delle forti basi scientifiche scritte nei nostri stessi geni. Le neuroscienze ci spiegano come la predilezione verso un cibo amarooppure uno dolce è determinata da fattori congeniti piuttosto che dall’apprendimento o dall’esperienza. Non a caso la vignetta sopra mostra come il gusto dice chi siamo.

In uno studio condotto su topi della Columbia University, è stato osservato come manipolando geneticamente specifiche popolazioni neuronali, si possa inibire selettivamente la percezione del dolce e dell’amaro nei topi e sottoporre poi questi alla evocazione dei due sapori che sono fondamentali. È chiaro come il cervello sia in grado di trasformare in percezione la rilevazione di uno stimolo chimico per mezzo dei recettori sensoriali posti a notevole distanza. Più recentemente lo stesso gruppo di ricerca ha chiarito che ogni sapore viene percepito dallo specifico sistema di cellule cerebrali che trovano posto in zone separate della corteccia cerebrale e che è possibile descrivere una vera mappa della qualità del gusto nel cervello.


Perché non siamo tutti golosi allo stesso modo?

Ancora una volta ci vengono incontro i geni nel definire la nostra morbosità nei confronti di un alimento ricco in zuccheri. Uno studio internazionale ha analizzato oltre 6500 cittadini di origine danese ed è stato osservato che molti di loro posseggono due particolari varianti del gene FGF21. Uno di queste due forme alternative riflette la tendenza dei soggetti che la posseggono a ricercare sostanze zuccherine con una percentuale del 20% superiore a soggetti che portano l’altra variante. All’origine della tendenza a prediligere il gusto dolce c’è però anche una base molecolare che spiega un bisogno biologico. Di recente su “Cell Metabolism” sono apparsi dei risultati a sostegno di questa tesi, nei quali si spiega come il gene FGF21 contiene le informazioni necessarie alla sintesi dell’ormone omonimo che è associato alla regolazione dell’assunzione di cibo nel caso specifico in roditori. Non di meno, data la presenza del gene FGF21 anche nell’uomo, si suppone la sua partecipazione nel modulare alcuni appetiti degli esseri umani e della influenza del fegato nella secrezione di tale ormone e del controllo della resistenza all’insulina.


Per indagare il possibile coinvolgimento di FGF21 nelle scelte alimentari, gli scienziati hanno confrontato le tendenze dietetiche di pool di tester rispetto ai loro valori di colesterolo e di zucchero nel sangue, senza dimenticare la possibile presenza di due varianti del gene FGF21. Dai risultati si osserva che i soggetti che ricercano e consumano cibi ricchi in zucchero hanno una maggiore probabilità di possedere una delle due specifiche varianti di FGF21. Inoltre, dalle neuroscienze si precisa la presenza di un'area del cervello detta nucleus accumbens, considerata l'epicentro dei meccanismi di ricompensa, desiderio e dipendenza e possibilmente collegata alla voglia di zucchero.

L’amaro resta, invece, da un punto di vita genetico il gusto più “complicato” da decifrare. I recettori che carpiscono questo elemento sono codificati da geni sparsi nel DNA. Si deve al chimico A. Fox, l’intuizione per cui non tutti gli umani percepiscono allo stesso modo questa sostanza. Questa volta più che esperimento, si tratta di un incidente. Accadde di disperdere, per errore, nell’aria del suo laboratorio una nuvola di cristalli fini di PTC (FenilTioCarbamide). Tra i presenti si fece manifesta una repentina percezione diseguale della sostanza amara, molto simile a quella contenuta in tanti alimenti. Si parla di cecità gustativa, ancor oggi uno dei tratti più studiati del codice genetico umano. Attraverso studi genetici, si identificano nella popolazione tre categorie di individui: un 30% delle persone sono completamente indifferenti al sapore amaro (detti non-taster); un 50% degli individui lo sente in maniera moderata, (taster); un 20%, è molto sensibile all’amaro (super-taster). Questi super gustatori sono notevolmente sensibili a tutti i gusti. Alla base di questa distinzione c’è una piccola differenza sul cromosoma 7, dove si trova il gene che codifica per un recettore il TAS2R38. Non solo, queste percentuali che descrivono le tre categorie variano nella popolazione umana. Alcuni studi evidenziano come la quantità di non-taster sia più bassa in Giappone, Cina, e nel Nord Africa, mentre il numero si alza notevolmente in India. Questo potrebbe spiegare la presenza di tante spezie aromatiche nella cucina indiana e di sapori più delicati nella cucina giapponese.

Non ci meravigliamo quindi difronte ad una tazzina di caffè amara oppure a una ricca di zucchero. Ricordiamoci piuttosto che i nostri geni hanno determinato in noi una certa predisposizione che rende il mondo variegato anche nei gusti e nelle abitudini.




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